Museo Ebraico di Berlino
Originariamente il museo aveva sede in un edificio situato a Oranienburger Straße, ma venne chiuso nel 1938 dal regime nazista. Parte della collezione sopravviveva nella Berlino Ovest presso il palazzo storico del Kollegienhaus. Solo nel 1988 il Senato di Berlino ovest annuncia il concorso internazionale per la progettazione di una nuova sede, che doveva essere più funzionale e moderna, che potesse ospitare la collezione intera autonomamente, visto che sino ad allora era rimasta come “dipartimento ebraico” del Berlin-Museum. Nell’aprile dell’anno successivo viene annunciato il vincitore del concorso: l’originale progetto di Daniel Libeskind.
Struttura del Museo
Dall’esterno si rimane assolutamente impressionati. Nessun collegamento visibile tra vecchio e nuovo edificio, dirà lo stesso Libeskind:«l’idea era molto semplice. Il museo doveva essere costruito intorno a un vuoto che attraversa l’intero edificio. Da un punto di vista puramente fisico, della presenza degli ebrei non è rimasto molto, piccole cose, materiali d’archivio, testimonianze più di un’assenza che di una presenza. Dal mio punto di vista, questo vuoto che è parte integrante della cultura contemporanea di Berlino, deve essere reso visibile e accessibile». Dall’esterno Between Lines, questo il nome dell’opera formata da 2 linee, dritta e a forma di fulmine che si intersecano, assume la forma di una stella di David aperta, scalfita, spezzata. Fotografare dall’esterno questa opera architettonica permette di percepire l’asprezza dei suoi angoli acuti e delle facciate lisce e luccicanti, che vengono lacerate da degli squarci, delle piccole feritoie che penetrano la facciata, delle linee irregolari nella storia. La luce filtra attraverso queste fessure asimmetriche che sembrano pugnalate, ferite non rimarginate, testimonianze perenni di un passato con poca luce, ma da non dimenticare. Il primo impatto fotografico con questa opera architettonica è la certezza che già l’esterno del museo sia un’opera in se, che sia una preparazione, interiore e psicologica per quello che si sentirà all’interno del museo.
Tre assi, tre corridoi, tre percorsi storici, per raccontare tre destini diversi del popolo ebraico durante gli anni della dittatura nazista.
Asse della continuità
Il primo asse porta alla “Scala della continuità”. Giunti in cima alla scala l’occhio di chi vuole ripercorrere la storia sarà avvolto da vite, piccole testimonianze, cimeli, nomi e volti che permetteranno di percorre millenni di storia del popolo ebraico. L’esposizione permanente è suddivisa in 13 epoche e in diverse sezioni tematiche, una imponente testimonianza documentale che ci racconta due millenni di storia ebraico-tedesca dal punto di vista della minoranza ebraica.
Giardino della Diaspora e dell’Emigrazione
Il secondo asse conduce al “Giardino della Diaspora e dell’Emigrazione”, un’area che sale in leggera pendenza e conduce all’aperto in un giardino a pianta quadrata composto da 49 colonne di cemento che disorientano volutamente il visitatore portandolo in un vero e proprio labirinto senza nessuna visione di insieme. Lo stordimento e il senso di smarrimento che si può provare durante questo intenso percorso riesce a raccontare grazie a sensazioni molto marcate un poco del senso di stordimento provato da chi, tra il 1933 e il 1941, per sfuggire alle persecuzioni naziste, si è lasciato alle spalle la storia di Berlino affrontando l’esilio. L’esilio è infatti lo sradicamento continuo di certezze, luoghi e non solo. In cima ad ogni colonna delle piantine d’ulivo sorgono come richiamo alla speranza e alla pace.
Asse dell’Olocausto
Il terzo asse conduce alla “Torre dell’Olocausto”, ed è l’unico a non avere una via d’uscita, per rimarcare l’impossibilità di dare interpretazioni, l’impossibilità di trovare luce in una pagina della storia cosi oscura, un vicolo cieco, freddo e silenzioso. Questo percorso conduce verso una torre vuota dove lo spazio diventa alquanto claustrofobico generando fin da subito sofferenza e inquietudine. La luce che filtra è pochissima e passa da feritoie dov’è praticamente impossibile vedere l’esterno. Non solo la luce comunica questo senso di smarrimento e isolamento, ma anche i suoni sembrano aderire alla situazione sensoriale per ricreare un muto grido di dolore. Si ha la sensazione netta, di essere in un luogo di morte certamente, ma un luogo dove quei lamenti, quella assenza di umanità, siano fortissimi e presenti. La sensazione di essere entrati dentro la storia ancora in corso. Una monumentale tomba o una prigione simile a quella di un campo di concentramento, per non pensare addirittura ad una camera crematoria. Quello che sicuramente si coglie è l’impossibile uscita senza conseguenze nelle menti di chi entra in questo luogo cosi evocativo. La sensazione di perdita di vita, di cultura e umanità. La dimensione e il messaggio sono chiari e molto suggestivi, carichi di significato.
Installazioni Museo
Tra le installazioni d’arte che arricchiscono il museo, la più toccante ed evocativa è forse quella dell’israeliano Menashe Kadishmar che prende il titolo di Shalechet, Foglie cadute. Un corridoio avvolto dal silenzio, che aspetta che qualcuno percorra quella strada per sentire il rumore sordo della violenza. Il silenzio che avvolge il corridoio è rotto dal visitatore che affronterà quel percorso, quel destino, calpestando diecimila maschere di ferro gettate a terra alla rinfusa. In questo enorme fiume di grida silenziose, ogni passo, ogni volto calpestato che sbatte contro gli altri squarcia il silenzio, le certezze e costringe per l’intero percorso ad ascoltare quelle urla di dolore. Dopo aver percorso la storia e arrivati metaforicamente alla fine della storia, una stanza buia e senza via d’uscita ci accoglie, forse per farci riflettere, ma costringe il visitatore a ripercorrere ancora una volta per tornare indietro quel fiume che ha bisogno di essere ricordato e che urla perché quello che è accaduto non si ripeta più. Il frastuono e l’angoscia per tutti quei morti fanno desiderare di uscire al più presto dalla sala, senza poter smettere di calpestare le teste delle vittime. Una Storia che fa rumore, e che non può permettere che si chiudano gli occhi per non vedere.
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