La fotografia d’architettura per molti aspetti potrebbe rappresentare la testimonianza di un opera immutabile e immobile, il lascito di un opera architettonica ferma nello spazio e nel tempo.
In realtà ogni fotografia, ogni opera architettonica rappresenta un unico filo rosso che unisce inevitabilmente passato, presente e futuro di una città, dei loro abitanti, e costringe ad un viaggio temporale anche la mente del fotografo che non vuole limitarsi a una mera rappresentazione della realtà oggettiva, ma che guarda attraverso l’obiettivo della macchina fotografica la soggettività della storia.
Lo spazio e il tempo nell’opera fotografica
La storia di Gibellina, dal passato delle macerie post terremoto, con una architettura da ripensare, una fotografia bianca che aspetta di raccontare il presente, passa attraverso un Utopia futuristica.
L’utopia classica del 68, la speranza che attraverso l’arte, e in questo caso l’arte architettonica e urbana si potesse conservare unione, ricostruire bellezza, e attraverso la bellezza ricostruire umanità.
Gibellina Nuova è la scommessa di un sindaco che chiama alle armi architetti e artisti di fama nazionale ed internazionale, che immaginano un grande museo a cielo aperto. Un architettura urbana che sia funzionale attraverso l’arte per creare una fotografia della città rinata e in evoluzione.
Come le più grandi e belle Utopie, spesso accompagnate da un fallimento, questa rivoluzione artistica, questa sfida architettonica, rischiava di essere come molte storie siciliane la fotografia del tutto e del niente, la fotografia di un grande vorrei ma non posso.
Fotografia del sistema di piazze
Fotografare queste piazze monumentali, architettonicamente imponenti e sacrali, circondate da porticati che le uniscono, le racchiudono, dovevano nella mente dell’architetto creare unità nelle persone e per le persone, lascia invece intravedere nella fotografia immobile una doppia visione, un doppio gusto miscelato tra immortalità dell’arte e un vuoto assoluto.
Fotografia dei Giardini segreti
Architettura aperta, fotografia fluida, ecco cosa rappresentano i giardini segreti di Gibellina.
Ideati dall’architetto Francesco Venezia tra il 1984 e il 1988, i due cubi aperti verso il cielo, due case scoperchiate, rappresentano un’architettura difficile da decifrare esternamente, con un ingresso nascosto che accompagna l’obiettivo della macchina fotografica dentro un dono, un regalo da non scartare con troppa fretta, da cercare, rispettare e assaporare, prendendosi il tempo che serve per gustare appieno l’arte architettonica. Distruzione e smarrimento per chi ferma il suo obiettivo fotografico all’esterno, meraviglia e stupore per chi riesce a fotografare la rinascita e la rivoluzione naturale al suo interno.
Fotografando l’incompiuto. Teatro di Gibellina
Forse la migliore rappresentazione di quello che l’architettura, l’arte architettonica voleva realizzare e non riesce a fare, perché l’arte si mischia al quotidiano, alle personalità, allo scorrere del tempo.
Un gigantesco pachiderma fermo nel suo spazio e incompiuto come ogni bella Utopia.
La realtà del presente fotografa l’abbandono di un progetto che voleva essere rivoluzione e si è trasformata in repressione di una visione artistica del futuro.
Architettura incompiuta che racconta attraverso la fotografia un rimpianto, un monito triste.
Fotografando la fotografia
Niccolò Vonci si presenta nella città di Gibellina con tante storie, raccontate da artisti, fotografi, writer, musicisti, ragazzi vogliosi, la bella gioventù che torna nella piccola città perché un sogno interrotto troppo presto possa diventare un giorno una ripresa, una fotografia che possa far intravedere quel futuro troppo presto scivolato dalle dita.
Per i primi 2 giorni Niccolò Vonci non fotografa nulla. Quasi impietrito da quel disorientamento, da quella realtà estraniante, un set cinematografico desolato, da quella architettura urbana sferzata dal vento caldo che quasi la brucia, la rende ad un primo sguardo arsa.
Una frammentazione visiva che fotografa una frammentazione sensoriale ed emozionale.
Un museo a cielo aperto, stupendo e vuoto, curioso e desolato, installazioni ferme nel tempo ricoperte da erbacce del tempo che scorre.
Foto installazioni nell’erba
Niccolò Vonci inizia a capire, a dare un senso a quella bellezza abbandonata, a quelle opere architettoniche quasi malinconiche grazie a l’incontro con alcuni ragazzi che non hanno abbandonato quella meravigliosa Utopia, ragazzi come molti, espatriati e ritornati nel loro paese per non cedere, per non perdere quel filo rosso che li unisce a quella visione artistica del sindaco che iniziò quella rinascita. Una visione romantica che lascia stupore ed amarezza.
L’approccio alla fotografia d’architettura di Vonci è sempre molto personale, interiore, ma la prima versione del suo lavoro a Gibellina è un approccio molto più oggettivo, che cercava di rendere, attraverso la sua fotografia urbana, molto chiara questa idea di arte nel vuoto, di bellezza desolante.
Però questo racconto, non rappresentava al meglio quello che Vonci vedeva attraverso la sua macchina fotografica, era un racconto che non sentiva suo.
I giorni passati a Gibellina e quello che lui vedeva attraverso l’obiettivo della sua macchina non voleva e non doveva essere un reportage sulla ricostruzione.
Nelle revisioni successive del suo lavoro ha cercato di dare un taglio più soggettivo, entrare dentro la storia, dentro quel tentativo magico di arte al servizio della quotidianità. Una visione più poetica e romantica, che non stravolge quel concetto di frammentazione e incompiuto, ma gli concede una possibilità di interpretazione soggettività slegata dalla ricostruzione in sé del paese.
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